Lettura per addetti ai lavori:

Pittori - Critici d'arte militanti e bilitanti, Direttori di musei pubblici e privati - Collezionisti - Presidenti di fondazioni pubbliche e private - Professori e Direttori Accademia di Belle Arti e Istituti d'Arte - Associazioni d'arte e cultura - giornalisti d'arte moderna locali et nazionali - Politici d'arte - Assessori alla Cultura etc. etc.

Caro Pica,

non credo mi sarà possibile scriverti un comunicato breve e leggibile, come tu mi chiedevi, per spiegare le ragioni che ti spingono a riflettere sull’uso dello spazio che fino ad oggi ha funzionato come “simil-galleria”. Dico “simil” perché quel tuo spazio più che caratterizzato come galleria (per quello che oggi è una galleria d’arte) ti rassomiglia e, in qualche modo, ci rassomiglia. (Dico ci rassomiglia chiamandomi in causa e non so se a tuo vantaggio o a tuo danno). Perché, caro Pica, devi arrenderti. Tu non fai mai le cose come andrebbero fatte e in questo sta la tua forza e la tua debolezza. Ma poi come andrebbero fatte? Chissà come andrebbero fatte!

Richiamandomi in causa, dico che noi, la nostra generazione o giù di lì, siamo un prodotto fortemente artigianale e come tale portiamo impresso il segno della mano che ci ha modellati, la sua deformazione, l’impriting di una famiglia e persino della sua mancanza. E se poi non apparteniamo ad una cordata parentale che ci ha passato il mestiere di padre in figlio, siamo un po’ fuori norma. E così la vita abbiamo dovuto un po’ inventarcela. Ed è quello che abbiamo fatto.

Ma riprendiamo da quella definizione di “simil-galleria”. Le tue cose sono sempre un po’ così, anche il tuo “ellisse” era un po’ cosi.  Un “simil-negozio” per l’arredamento in cui si mischiavano varie cose, varie esperienze, ambizioni, necessità. Allora eri giovane e come si dice “avevi famiglia”.

Allora l’agenda della tua vita era in qualche modo dettata da ragioni inderogabili. Oggi invece è il desiderio di “senso” ad essere in prima fila rispetto a tutto il resto.

Il desiderio di senso, chi è questo sconosciuto. Prima di arrivarci attraverso una definizione esplicita che ti (ci) riguardi in prima persona cerchiamo di individuarne l’area su cui insiste. Caro Pica tu sai sicuramente che una galleria d’arte oggi, ma anche in passato, è sostanzialmente un’azienda commerciale, e tra queste certamente non la meno agguerrita. Un’azienda commerciale che lavora sull’illusione, sul superfluo, sull’mmaginario, in definitiva sull’inutile se guardiamo da un punto di vista pre postmoderno, ma invece dal punto di vista della post modernità sul cuore, sul cibo di cui il “desiderio” si nutre. E però la contemporaneità ha prodotto strumenti molto più efficaci, più veloci nel ricambio, in corso d’opera, di strategia dell’immaginario, rispetto alle quali una galleria d’arte che volesse competere a livelli più o meno popolare si troverebbe a mal partito. Per quello ci sono i musei che insistono nello spazio del tempo libero e del turismo e che sono mantenuti con il danaro pubblico. Le gallerie private hanno quindi necessità di attrezzarsi, di trovare un targhet adeguato e rifugiarsi infine tra i venditori di beni di lusso e superlusso. Occorre allora frequentare ambienti adeguati, travestirsi da fornitori di status simbol tra i più esclusivi, indossare i vestiti alla moda e principalmente emanare “carisma” anche se non ce l’hai, in un gioco di reciproco rispecchiamento: ti lascio credere di averlo purchè tu faccia con me lo stesso. Anzi sai cosa ti dico, la condizione ideale è proprio quella di essere un uomo qualunque, o meglio un uomo senza qualità, travestito però con la maschera un po’ snob dell’appartenenza ad un circuito ristretto di una categoria di privilegiati. L’identificazione è così più facile.

Mentre ti racconto queste cose, mi viene da pensare che, a modo tuo, questo gioco, in altri tempi tu lo hai saputo fare. Ma appunto erano altri tempi e tu lo hai fatto secondo regole assolutamente oggi inattuali, o almeno inadeguate al ruolo di una galleria d’arte.

Ma andiamo avanti.

Desiderio di senso, dicevo.

E’ la tua vita che racconta questo desiderio. Ovviamente tutti chi più chi meno siamo alla ricerca di senso e spesso conviviamo con una frammentazione e reiterazione di molteplici significati. Mi spiego meglio.

Quella che viene chiamata  razionalità strumentale è anche quella che ci ha permesso di vivere più a lungo, di stare meglio in salute, di moltiplicare almeno potenzialmente le possibilità di godere di una “quantita di libertà impensabile solo fino all’altro ieri. Quella razionalità però non ci viene offerta gratis. Ha un costo. Mentre promette libertà per tutti da prescrizioni pubbliche e private, libertà di attraversamento (a rischio di schizofrenia però) di molteplici personalità (con la responsabilità soggettiva sinanco di mutarne l’equilibrio egemonico), disponibilità per l’uso di un apparato tecnologico che potenzialmente è in grado di ampliare, migliorare, trasformare sia la vita sociale e forse anche quella biologica, tende però a occultare, con grande efficacia - oltre l’ovvia differenza di accesso in una società sempre più diversificata, dal punto di vista del reddito, fra grandissime ricchezze e molte povertà - l’impossibilità, o almeno la difficoltà a stringere in un qualche significato generale e condivisibile da tutti, la natura, l’uso, le gerarchie, le regole, i benefici che derivano da questa complessa macchina.

O forse è meglio non porsi il problema di una possibile sintesi, provvisoria quanto si vuole, di funzione e significato e almeno, seppure agli estreme della polarità, immaginare una tensione che corregga, moderi ed indirizzi l’una attraverso l’altro e viceversa?

Il senso si moltiplica in infiniti rivoli comunicativi, infiniti significati si offrono in superficie come in un possibile supermercato, lasciando ad ognuno, in un momento dato, la possibilità di scegliersi il proprio, con l’illusione che quella scelta sia proprio la sua. Il supermercato però non offre qualità personalizzata, ma quantità standardizzata. Più o meno tutta uguale, diversa ma media. Il supermercato è il regno dell’ omologazione.

E così la razionalità strumentale, mentre promette libertà ed individualità sembra invece distribuire nei fatti, accanto ai molteplici benefici, sia  una sottile e continua dipendenza da procedimenti tecnologici ai più ignoti, se non nel funzionamento terminale, certamente nella razionalità che li genera e li governa, che una banalizzazione e omologazione di narrazioni collettive e soggettive attraverso le quali orientarsi nel mondo della vita pubblica e privata è sempre più difficile.

Paradossalmente più diventa complessa e ricca di potenzialità l’armamentario tecnico-funzionale di cui disponiame e che usiamo dal computer alla medicina, dalla integrazione dei sistemi tecnologici e comunicativi, alla possibilità di intervenire nella vita biologica, tantomeno disponiamo di narrazioni capaci di restituirci un qualche significato generale.

Mi accorgo però, caro Pica che quanto ti dicevo potrebbe essere equivocato. Non sono alla ricerca di una qualche religione, o di una qualche idea di etica fortemente prescrittiva. E’ indubitabile che questo è il tempo della solitudine ma anche della libertà.

Quando non esistono verità definitive più o meno assolute, dare senso alla vita diventa questione soggettiva e fatto personale. Quel significato che prima si trovava partecipando ai grandi eventi sociali, interpersonali e collettivi, ovvero alle idee appartenenti al “bene comune” come la patria, o scendendo di generalità, come la classe o il gruppo di appartenenza, oggi dopo la liquefazione, rimane solo la propria biografia. E così questa diventa il centro di attenzione, l’ investimento possibile su cui puntare per restituire senso alla vita. Qui però nasce la difficoltà. Affidare ad ognuno il significato ultimo della propria esistenza significa concentrare nella intelligenza e coscienza soggettiva, quello che prima si produceva attraverso un lavoro sociale nell’immaginario, attraverso uno sforzo di infinite intelligenze, una sorta di cervello collettivo, che progettava i modi e le regole dell’esistenza per successive approssimazioni. La libertà di oggi rimanda ad ogni singolo soggetto  la responsabilità della propria vita e della relativa riuscita.

Ma siamo proprio sicuri che questa libertà sia proprio libertà? Una società laica ed aperta, fondata su un “contratto”, un patto fra le parti, non deve alla fine comunque parlare la lingua di un qualche interesse generale? E la libertà senza regole non è arbitrio soggettivo e le regole senza libertà non sono dispotismo autoritario?

Dico solo che quando più potente si fa la macchina a cui affido la mia vita - quella macchina della razionalità strumentale che coincide ormai con l’impalcatura e intelaiatura del mondo - tanto più potente dovrebbe esserne la mia capacità di governo e la relativa consapevolezza. Capacità di orientarne la direzione e non solo quella che vi imprime il “potere” che, tra l’altro, al momento non so nemmeno dove sia, ma quella direzione prodotta, in maniera impersonale, dalla dipendenza assoluta alla funzionalità (basta che funziona direbbe Woody Allen) ovvero la prescrizione implicita per cui la funzione è scissa totalmente dal significato, e siamo al punto di partenza. Sto parlando insomma di un possibile aumento della comprensione e della consapevolezza del singolo che invece non mi pare sia oggi all’ordine del giorno, oscillante come siamo tra la verità di ciò che funziona e la verità di ciò che ci prende, ci affascina, ci piace empaticamente, senza sapere perché (M. Magatti). Tra una razionalità delle procedure e dei relativi protocolli ed un inseguimento delle pulsioni oscure che gravitano nel profondo della “pancia” unificando il popolo, sostituito così all’opinione pubblica, nella logica degli istinti e non della ragione. E si sa che l’empatia, la passionalità, la fascinazione, se non governata da un attenta razionalità si traduce in una identificazione acritica priva di capacità di valutazione e se poi si amplifica nel corpo monolitico della psicologia di massa…..allora produce, come ha prodotto, disastri.

Sto parlando di un difficile aumento del senso di responsabilità, mentre invece sembra accadere il contrario e la risoluzione dei conflitti e delle contraddizioni,  viene sempre più affidata a meccanismi impersonali che vengono descritti come miracolosamente dotati di qualità terapeutiche. Uno per tutti il mercato.

Ma ora caro Pica, ritornando al problema dell’arte, delle sue difficoltà e dello spazio che la rappresenta o che immagina di rappresentarla, vorrei innanzitutto soffermarmi su di una riflessione che mi pare propedeutica ad ogni ulteriore considerazione. Vorrei chiedermi e chiederti le ragioni e le eventuali connessioni fra i dubbi che ti nascono nel merito dell’uso della tua galleria e il momento attuale. Perché proprio adesso?

Il primo pensiero che mi passa per la testa è che possa esserci qualche relazione fra i tuoi dubbi e l’ultima mostra, quella di Checco alias Francesco Moroso. Con Checco  siamo ritornati alle origini. Lui è come quei salmoni che, ritornando al fiume dove sono nati, lo risalgono faticosamente controcorrente per deporre, una volta arrivati alla foce, le uova e poi, stremati, morire. Checco, innocente come un bambino, ma pur sempre perverso, è tornato lì dove il pensiero umano si affannava alla ricerca di un sapere incontrovertibile che ai confini del tutto spiegasse il mondo rassicurandolo dal terrore che la vita con il suo “divenire” procura a tutti. Un sapere incontrovertibile e indubitabile in alternativa all’opinione che, come si sa, è per sua natura, appunto, opinabile. Il massimo possibile della ricomposizione del senso e dei significati. Quando il regno della tecnica aveva una estensione molto limitata e la spiegazione del mondo, approssimativa se non inesistente, la verità metafisica la faceva da padrona. E’ così prima il mito e poi malgrado Platone, la religione e l’arte funzionavano come spiegazione e rassicurazione promettendo immortalità e significato. La prima nello spazio di un altro mondo, la seconda nel tempo di questo.

Poi tutto è cambiato. All’epoca dei nostri anni verdi avevamo una idea del rapporto funzione significato, alternativo a quello allora imperante, come critica feroce del presente. Una ricomposizione del senso intorno ad una prospettiva escatologica del futuro che guardava alla storia nella forma di un processo lineare proteso verso il progresso e la modernità. Pensavamo che, attraverso le armi della critica, trasformatasi poi nella tragedia degli anni ’70 nella critica delle armi, potessimo e dovessimo cambiare il mondo. Allora ci sentivamo responsabili, anche sotto la forma del delirio di onnipotenza, dei destini generali di quel mondo in cui avevamo spesso scarse capacità di stare. Anche quelli come te, che per ragioni contingenti e quindi anche caratteriali, avevano imparato, spinti dalla necessita, a cadere in piedi, ad utilizzare le poche occasioni che gli venivano offerte, a rimanere almeno con un piede ben saldo per terra, a funzionare come autsaider, come imprenditore autodidatta e un po’ selvaggio, perfino quelli come te hanno in fondo trascorso la loro vita afflitti dal complesso di colpa e alla ricerca di una ricomposizione del senso parallelo se non alternativa alla capacità che mostravano nel loro (magari) situarsi comodamente. Afflitti da una sotterranea voglia di dissipazione. A differenza di quello che accade oggi quando una tendenziale superficialità si associa ad una forte competenza situazionale erravamo invece accompagnati da una tendenziale o immaginata profondità e da una probabile e non desiderata  incompetenza situazionale. Ora però caro Pica mi accorgo di generalizzare quello che forse era solo una qualche inadeguatezza soggettiva, facendola diventare il tratto distintivo di una generazione. Ma tant’è. Prendi queste argomentazioni per quelle che possono essere, ovvero stralci di ragionamento che, a partire proprio dal soggettivo, tentano di catturare una qualche traccia di considerazione più generale. 

Dicevo, una qualche relazione fra i tuoi dubbi e la mostra di Checco, perché quella mostra per contrasto evidenzia tutto ciò che manca all’arte contemporanea. Anche se ciò che manca all’arte contemporanea oggi sarebbe inutilizzabile, ma contemporaneamente mancando rende quest’ultima superflua e forse inutile.

Come ti dicevo, nel tempo che fu, la vita degli uomini era chiusa nel recinto prescrittivo di una “narrazione” tessuta principalmente dalle religioni e l’arte ne era, in qualche modo il braccio secolare. Lo spazio degli uomini aveva confini segnati dal principio di non contraddizione. Una cosa era quella e non poteva essere altra che quella. E così i valori e le norme. La produzione artistica era il regno dell’espressione e realizzazione del “se” attraverso però un duro e faticoso apprendistato. Si produceva così, mediante l’apprendimento delle regole di un qualche mestiere e di una lingua, un ruolo socialmente utile e riconoscibile e un effetto di moderazione e di civilizzazione di quel narcisismo egotico che oggi invece sempre più, in questo come in altri settori della partecipazione alla vita pubblica, si presenta allo stato brado. Il regno delle pulsioni era tenuto a bada dall’ordine sociale, trascrizione di un interesse generale cui tutte le individualità erano sottoposte, pur nelle rigide gerarchie che ne determinavano i limiti soggettivi. E l’arte sanciva, oggi si direbbe nell’eccellenza, il massimo possibile della ricomposizione di funzioni, strumentali a quell’ordine sociale, con un significato e una dotazione di senso alto. Certo la vita dei più e forse di tutti era molto più breve e più difficile. Se poi ci si trovava alla base della piramide sociale, la possibilità di sopravvivere scarsissima. Ma qui non stiamo rimpiangendo il passato.

La rivoluzione industriale,  accompagnata dal capitalismo e dalla democrazia in una relazione a tre di cui il terzo termine a volte è stato latitante, pur venendo da lontano, nel lento procedere di quella storia, sbarca infine alle soglie del diciannovesimo secolo (prima o dopo a seconda delle diverse realtà nazionali) e dopo aver lavorato a lungo sootterraneamente (il rinascimento italiano, la perdita del centro in un pianeta intorno a cui non gravita più l’universo, la ragione e la tolleranza come incubatrice del soggetto, l’illuminismo e infine la rivoluzione francese con l’appendice, non trascurabile, del terrore giacobino) irrompe in quel mondo rigido, rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, avviando una radicale trasformazione con tempi accelerati alla velocità della caduta di un “grave”.  Oggi però sappiamo che quel viaggio non ha né direzione né confini, che procede senza promettere futuri di liberazioni se non quello che saremo capaci di costruire pur nella difficoltà di un sistema di equazioni dove le variabili superano di gran lunga i termini noti. E’ così la logica inclusiva, a cui aspirano le società moderne più o meno aperte, ha una doppia natura. Quella della liberalizzazione e quindi della possibilità di mettere a regime risorse ed energie in quantità così massiccia tale da aver cambiato, almeno in occidente la faccia del pianeta e la vita degli uomini, più negli ultimi duecento anni che nei duemila precedenti, ma anche quella della riduzione, una volta si sarebbe detto, a merce di ogni cosa, di tutto, vita umana compresa. Trasformando quello che, almeno intenzionalmente, era l’universo della qualità in quantità astratta e monetizzabile,  rendendo così tutto possibile, ogni comportamento legittimo, ogni dover essere superfluo, perché tutto sottoposto alla logica della compravendita.

Questo diverso ordine sociale, nel suo prodursi, non poteva lasciare inalterato la produzione artistica. Anche qui il processo è stato lungo ed è cominciato lontano. Il manierismo  con il barocco il rococò e infine il neoclassico parla per la prima volta con la lingua della “convenzione”. Non più trascrizione mimetica per un rapporto innocente con la realtà, ma invece consapevole schermo ideologico alla ricerca della persuasione e non del vero. Poi l’esaltazione individualistica della soggettività, del sentimento, del pathos fino a teorizzare, come possibile reazione al sublime, la sindrome di Stendhal, deliquio dei sensi, risposta isterica all’abbraccio troppo coinvolgente, nella forma quasi dell’esaltazione orgasmica, come metafora dell’estasi da santità. Sono apparso alla Madonna, direbbe C. Bene. Questo all’alba della rivoluzione industriale quale antidoto e risposta alla deupaperizzazione dell’artigianato, di cui anche gli artisti in qualche modo facevano parte, e alla massificazione incipiente del “producibile”. E infine, voltando pagina, il secolo ventesimo inaugura la “verità” secolarizzata e relativizzata dalla morte di Dio, tenendo a battesimo, fra gli ultimi nati, l’avanguardia che, liberata da norme e prescrizioni e avente infine come unico obiettivo una antelitteram esaltazione del sé contro l’universo della tradizione, in una feroce quanto iconoclastica uccisione dei padri, adotta la strategia della critica, della riflessione autoreferenziale, inagurando così il ciclo della libertà performativa che sceglie per se le regole del gioco.

Ma non finisce qui. Tra la fine degli anni ’50 e i ’60, dopo una lunga parentesi di richiamo all’ordine, l’avanguardia fa nuovamente capolino. Caccia fuori la testa dal recente passato per ritentare l’avventura. In particolare, nella realtà italiana, stretti come eravamo fra due chiese, quella cattolica e quella comunista che - l’una attraverso la cornice della spiegazione del mondo in chiave più o meno religiosa, l’altra mediante la ricomposizione teoria prassi affidata all’ideologia dell’intellettuale organico, sullo sfondo del superamento di ogni separatezza per la ricomposizione dell’unità dell’umano nel socialismo prima e nel comunismo dopo - battevano la strada di una pedagogia pervasiva ed asfissiante.

In quella realtà l’avanguardia rappresentava quasi una terza via,  uno stile di vita, un modo per tentare di sciegliersi da soli, seppure in compagnia, una qualche ricomposizione del senso. Pur se nella forma dell’eccezione, della rivoltà contro verità sclerotizzate, dell’individualismo come volontà di messa in crisi di abitudini, regole, istituzioni linguistiche, mitologie pervicacemente attaccate al passato. Fare dell’avanguardia significava contribuire in ultima analisi a spostare il baricentro soggettivo dall’osservanza dei divieti, dal contenimento delle pulsioni attraverso la trama del dover essere al “desiderio” che, diversamente da oggi, non era sollecitato da un invito quasi coattivo. Era allora fortemente tenuto a bada, ai limiti di una condotta legittima, da costrizioni sia endogene che esogene. Non c’era ancora la post-medernità e il consumismo era solo agli inizi.

In quel contesto significava proprio scegliersi la via della modernità e la modernità quando c’è la si può  pure criticare, ma quando non c’è bisogna cercarla e se possibile anche trovarla. Né meravigliarsi troppo se subito dopo si trasforma in quella post-medernità di cui sopra. Oggi però sappiamo anche che cercando di stabilire in proprio le regole del gioco, anticipavamo quella libertà performativa che ormai si offre a tutti ai prezzi scontati dei saldi di fine stagione.

Per dirla tutta, fin dall’inizio, l’avanguardia, malgrado ciò che di sé stessa diceva, ha dato una mano a quella volontà di razionalizzazione che puntava complessivamente ad un processo di svecchiamento, se non di superamento tout court, di quei “valori” che funzionavano da freno allo sviluppo, che impedivano comportamenti “avalutativi” affidati esclusivamente al calcolo costi benefici. Tra i “valori” che occorreva liquidare vi era anche quella idea dell’estetica come regno del bello, del pathos, della dimensione empatica e pacificatrice e di superamento della polarità spirito mondo. Ovvero il rimpianto dell’ “uno”, della sintesi definitiva, implosione della pluralità complessa e delle sue infinite contraddizioni. Il desiderio dell’utopia miracolistica che avrebbe risolto definitivamente i molteplici interessi ed i suoi infiniti processi di divisione fuori del tempo e della storia. La nostalgia di una mitica origine primigenia o in alternativa la speranza per una ricomposizione nella fine dei tempi (o del tempo) e della storia. Il rifiuto di quella pluralità complessa che è in fondo la vita. L’aspirazione sottaciuta e non confessata alla immobilità dell’eterno contro la mobilità e precarietà del “finito” e del divenire.

Appena di sfuggita, quella utopia di superamento della polarità di cui sopra traghetterà gli intellettuali e gli artisti “dall’arte, dalla letteratura, dalla cultura del rifiuto al rifiuto dell’arte, della letteratura, della cultura”, quando nella volontà palingenetica di cambiare radicalmente il mondo, realizzando in terra quel paradiso che le religioni promettevano in cielo,  ci si spinse a pensare la morte non solo dell’arte ma forse della cultura tutta in quanto separatezza. Con il retropensiero che la qualità e il senso sarebbero resuscitati - dopo quella rivoluzione politica che sembrava ormai all’ordine del giorno e che si presentava prepotentemente con l’aut aut di parteciparvi o in alternativa di fermare il mondo e scendere - non più come “separatezza” ma come libertà assoluta di tutti e per tutti. Nel “non tempo” di una società perfetta tutte le differenze e tutti gli specialismi della divisione tecnica e sociale del lavoro sarebbero spariti.  In quella occasione gli intellettuali e gli artisti, o almeno molti di loro, decisero per il suicidio di massa, come categoria separata, e per una relativa militanza seppure come osservatori o tutt’al più come compagni di strada. Quella rivoluzione non si farà mai, ma da lì a qualche anno, quel clima  contribuirà all’imbarbarimento che caratterizzerà la seconda metà degli anni ’70.

E così in quel decennio si consuma la lenta agonia della avanguardia e forse anche di un’idea di cultura in tutte le sue forme e abitudini. Quando quella terribile avventura, di una politica esercitata nel regno dell’impossibile, motivata quasi esclusivamente da una stupida volontà omicida e suicida, governata dall’ideologia del tutto e subito, sarà conclusa allora saremo ormai un un altro mondo. Saremo negli anni ’80. Alla vigilia della caduta del muro di Berlino, di quel processo di globalizzazione che cambierà la faccia del mondo, nel clima della fine delle ideologie, della riscoperta del privato e via di seguito. Allora quei comportamenti, quelle strategie, che prima ci sembravano piene di senso, che ci rendevano protagonisti eroici di istanze fortemente eterodosse e trasgressive perché di fatto ci opponevano ad una realtà sociale irrigidita in un sistema di regole perfino in ritardo, a salvaguardia di una concentrazione di sforzi nella direzione dell’accumulazione del risparmio, allora, in quegli anni e ancora oggi ci appariranno  assolutamente ridicole, inutili e prive di ragioni plausibili. In un mondo che ha fatto della liquidità la sua ragion d’essere, della trasgressione la regola, della velocità il principale motore, l’avanguardia non ha più alcuna verità. E stendendo un velo pietoso su ciò che ci rimane possiamo solo definire tautologicamente – con Donald Thompson, economista inglese con la passione dell’arte – l’arte contemporanea come quella che viene venduta dalle maggiori case d’asta dedicate all’arte contemporanea.

Come si vede una tautologia tutta fondata sul prestigio mondano ed economico della casa d’asta di cui sopra.  Così non solo sono spariti gli artisti, che ormai vivono solo di luce riflessa, non donano più visibilità e gloria ma, al contrario, ricevono un eventuale immortalità a tempo dalla quantità di denari che spostano nelle transazioni e dai relativi soggetti economici che tali transazioni determinano, ma a questo punto sembrano spariti – o almeno attori di secondo e terzo piano – anche i critici ( mi piacerebbe dirlo a qualche mio amico, ma credo che lo sappia. E’ troppo intelligente per non saperlo) e forse i galleristi. Almeno quelli piccoli, ovvero tutte quelle figure che nel processo di modernizzazione del sistema dell’arte tenevano, come dire, un piede in due scarpe svolgendo  per un verso il  ruolo di scopritore, quando non di inventore/creatore dell’artista, di soccorritore con la scrittura sul terreno della teoria e della divulgazione attraverso ragioni nobili più o meno imparentate con la filosofia e con l’estetica, e per l’altro il ruolo di manager, di organizzatori, di mediatori fra il mondo della cultura e quello dell’economia. Oggi rispetto al tempo delle avanguardie tutto è definitivamente cambiato. E come potrebbe essere diversamente.

Se prima l’importanza delle opere d’arte stabiliva anche il loro valore economico, oggi le cose si sono ribaltate: il valore economico è infatti spesso ciò che definisce l’importanza dell’opera d’arte” (F. Bonomi).

Come vedi, caro Pica un completo capovolgimento di gerarchie. L’arte non è più il luogo della liberazione e del senso, ma un oggetto di lusso carico solo di ciò che il potere del denaro vi ha riposto dentro.  Il suo cuore, come uno specchio, ci rimanda la faccia del potere simbolico di chi lo compra e lo vende. Forse nemmeno più status simbol ma rispecchiamento di uno “status” ricercabile altrove, attraverso una catena di possibili rimandi, in uno gioco di specchi affrontati.

Ma ora torniamo a noi caro Pica, avevo cominciato col dirti, se non sbaglio qualche pagina indietro, di come oggi tu, ma direi anche noi, siamo così fortemente sensibili alla ricerca del senso. E allora nasce spontanea l’interrogazione di cosa ci renda in questo momento così interessati alla domanda delle domande!

Quando il meriggio volge verso la sera una sorta di dolce malinconia pervade l’imbrunire ed allora nella quiete di una riflessione, che per ciascuno non può che essere solitaria, ci si interroga sul senso di quella giornata. Perché se è vero, come Berlusconi ci ha promesso, che avremo una vita lunga almeno centoventi anni in buona salute, e allora ce ne restano altri  cinquanta fecondi ed attivi, è pur vero però che, citando V. Gassman, abbiamo alle spalle un lungo futuro. Ed allora, concludendo, è forse proprio quella domanda delle domande che questa tua galleria delude. E come potrebbe essere diversamente.

Ma non lasciarti intristire né scoraggiare caro Pica. Tu sai bene che la vita ricomincia sempre daccapo. Non essere deluso se molti giovani artisti, non solo quelli giovani, cercano le vie del successo mondano ed economico, anche attraverso eventuali scorciatoie. Per inciso voglio ricordarti che qui difficilmente le trovano, che la selezione più o meno feroce non avviene sulla base di una improbabile qualità, tanto meno quella del mercato che da noi quasi non esiste. E non essere deluso nemmeno dalla disattenzione pervicace delle istituzioni. Non ti hanno e non ci hanno mai preso in considerazione. Ti ricordi la questua in occasione del convegno organizzato verso la fine degli anni ’70 con Benedetto Gravagnuolo e Attilio Belli quando portammo a Napoli il meglio della cultura architettonica? Anche in quel caso le istituzioni furono sorde e cieche. Anticipasti tutto tu.

Allora goditi questo pomeriggio che prelude ad una sera e ad una notte stellata, inventati come tu sai qualcosa, ricomincia daccapo, conservati queste mie elucubrazioni, salutami il tuo giovane figlio, non spendere soldi ed infine vogliamoci bene.

 

Ciao

Antonio.

Napoli 4 febbraio 2010

 

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