Lettera ad un cugino pittore di Raffaele la Capria
Caro Giuseppe, ho visto le riproduzioni dei tuoi quadri, e anche se non saprei valutare criticamente il valore della tua pittura posso però dire quello che suscita in me il semplice atto di vedere questi tuoi dipinti. Certo vederli in una foto e in dimensioni che non sono quelle originali è tutt’altra cosa che vederli direttamente, ma un’idea ce la facciamo ugualmente. Se così non fosse tutti i libri di Storia dell’Arte, corredati di riproduzioni, sarebbero inutili. Dunque un’idea me la sono fatta, e ho sentito subito in essi una forza esplosiva, una irruenza, una volontà di aprirsi al mondo superando tutti gli schemi e tutti i pregiudizi, e riconquistando una propria innocenza, anche a prescindere dalla cultura e dalle forme in cui si manifesta nei quadri dei tuoi contemporanei. Guardando i tuoi quadri mi è venuto in mente quel che ho scritto in un mio libro, “La neve del Vesuvio”: lì c’è la descrizione delle impressioni di un bambino che guarda il mondo e i colori del mondo per la prima volta. Ho cercato di immaginare come poteva essere quella “prima volta”, e ho immaginato che l’occhio di un bambino riesce a cogliere dl un colore -mettiamo del colore rosso- solo il suo assoluto, solo il segno che trasmette il colore, cioè il rosso prima che il rosso appartenga a una qualsiasi cosa rossa, al sangue o a un papavero a altro. Ecco, mi sono ricordato di questo guardando le riproduzioni dei tuoi quadri, e mi è sembrato che questo fosse il rapporto primigenio da te stabilito coi colori sulla tela. E naturalmente questi colori non sono inerti, ma agiscono, interagiscono, dinamicamente, spinti dalla forza contrastante del loro segno e proclamano lo stupore della vita allo stato nascente festosi come i fuochi d’artificio nella notte. A me pare difficile definire in termini culturali questa tua pittura, non direi “astrattismo”, non direi “informale” perché questi sono movimenti e tendenze di cui si occupa la storia dell’Arte, e per te invece, io parlerei di archetipi, parlerei come si parla delta pittura dei popoli primitivi, dei tatuaggi, delle decorazioni, delle maschere, di un’arte, insomma, che ignora la storia dell’arte ed è pura espressione, meraviglia di essere al mondo, lotta contro le tenebre, affermazione della vita contro la morte. Con questo non voglio dire che i tuoi quadri sono dei capolavori, voglio cercare soltanto di spiegarmi la loro genesi, da dove vengono, come mai ti hanno ossessionato.
In tutto questo si mescola anche un elemento familiare. Tuo padre era il fratello di mia madre, e io ricordo bene zio Mano, e la sua passione per la pittura che tu hai ereditato. Lui era un pittore “naif”. Da bambino mi sono incantato tante volte a guardarlo mentre dipingeva, m’incantava vedere come riusciva con una pennellata a rendere la trasparenza di un bicchiere, il riflesso della luce su un oggetto. Sono stato anche per ore fermo su una poltrona, con lo sguardo fisso davanti a me, a fare il suo modello. Tutti questi ricordi mi vengono incontro mentre ti scrivo. Zio Mario mi piaceva anche come tipo d’uomo, era spiritoso, brillante e inconcludente, rassomigliava tanto a mio fratello Pelos, cui ho voluto molto bene e che ho molto ammirato perché lui era veramente un ‘beniamino della vita”.
Beh, la mia lettera è finita. Ti saluto e ti faccio molti auguri perché so che la tua strada non sarà facile, e tu non sei come tuo padre e come mio fratello, un “beniamino della vita”, almeno per ora.
Roma 18 gennaio 2007