Andavamo per certe semideserte strade, ora deserte
Io lavoravo, dal 4 di gennaio del 1964 con le funzioni di commesso e "tuttofare" alla libreria Macchiaroli in via Carducci.
In quegli anni quello era un luogo in cui parole e idee si muovevano a più livelli di altezza nello spazio alto e angusto della Libreria. Erano palpabili, commoventi e dolci quanto spigolose e cospicue, emesse e coltivate come in uno speciale recinto, uno iazzo, destinato a tenere insieme parole e persone.
Un giorno, non so precisare, si affacciò in libreria, radiosa e sorridente, Lella. Nata in Romagna da famiglia comunista da anni lavorava nel settore dell'arredamento moderno. Dirigeva un importante negozio di mobili di via Filangieri, e veniva a respirare un'aria meno spocchiosa di quella della greve borghesia danarosa che orbitava nel quartiere che frequentava il negozio Mim e a condividere conversazioni che più le erano proprie, cultura e politica.
Fu subito amicizia e complicità intellettuale. Dopo qualche giorno Lella attese in Libreria a fine lavoro il marito che lavorava all'angolo di via dei Mille con via Carducci. Fu così che incontrai Salvatore Pica. Ci 'riconoscemmo' subito. Lui proletario verace per origini e per senso popolare e popolaresco del gioco.
Io, al contrario, di famiglia medio borghese, ma che adolescente si era proletarizzato per ambiente quotidiano, il dopoguerra a cavallo degli anni quaranta e cinquanta, 'a guainella nelle buche de3lle bombe dietro 'a funtana 'e paparelle a Piazza Cavour, cresciuto nella università della strada, delle strade di Luigi Incoronato di “Scala a San Potito”, che Mondadori aveva pubblicato nel 1950, e che gli aveva dato fama e notorietà specie tra noi giovani intellettuali comunisti napoletani. Per me in particolare, la scala che univa via Enrico Pessina, ‘a scesa ‘o Museo, con la sovrastante via San Giuseppe dei Nudi attraverso 4 o 5 rampe buie e maleodoranti di piscio e creolina, mi erano note non per vocazione letteraria ma per il fatto stesso che ‘o palazzo a spuntatore come il luogo era chiamato dagli abitanti della zona del MuseoNazionale-SantaTeresa- Salvatorrosa-PiazzaCàvur (il toponimo nella pronuncia dialettale aveva l’accento sulla a e non sulla u) evocava la parte della città che da ragazzino e da adolescente più avevo frequentato negli anni ’40 e ’50. In verità il gruppo di giovani intellettuali di cui ero parte e che già da un anno o poco più si dava da fare in iniziative, per così dire, di agit-prop culturali e politiche, aveva avuto modo e opportunità di frequentare tanto lui che gli altri scrittori e uomini di cultura napoletani.
Questo, per quanto mi riguarda, il clima delle tenere serate trascorse in interminabili conversazioni con Lella e Salvatore, di solito in qualche osteria o "vini e cucina".
Ero parte di una Napoli d’intellettuali poliedrici cui proprio Gaetano Macchiaroli seppe dare aggregazione, in una serie di progetti culturali che si snodarono tra la mitica libreria di via Carducci e quello che il Barone Compagna dagli spalti di Nord e Sud aveva definito il Quartiere Latino, orientativamente via Carducci, via Filangieri, via dei Mille, pazza dei Martiri, piazza Amedeo, via Martucci, via Santa Maria in Portico.
E per "intellettuale comunista", non negarlo Salvatore, intendevamo appartenente al Pci di Napoli. Ovvero quel tipo di intellettuale illuminato, liberale, di tradizione e formazione storicistica, che vide nel Pci l'erede delle migliori tradizioni cittadine, dalla rivoluzione del 1799 alle Quattro Giornate, dal Risorgimento al meridionalismo antifascista.
Oggi - ora che scrivo - che la politica è sempre più sbrigativa e arrogante, tornano rigurgiti di un laurismo populista e nostalgie piedigrottesche, comprendiamo meglio quanto ancora ci sarebbe bisogno di personaggi così severi, coerenti e intransigenti come noi, che amavamo Napoli e le sue tradizioni senza mai venire a patto con i suoi deleteri cascami folcloristici, provinciali, autoreferenziali.
Pica aveva intanto conosciuto e iniziato a frequentare il catanese ingegnere Franco Biondi che aveva aperto una piccola ma fornitissima bottega di dischi, Refrain, eravamo ancora in epoca del vinile, meglio ancora dei "lato A e lato B" dei 45 giri, 7 pollici di diametro col grosso buco centrale, brevetto RCA che avevano mandato in soffitta i fragili e fruscianti 78 giri epoca grammofono, puntina d'acciaio, di spine di agave dei deserti del Nuovo Messico per i più raffinati.
Biondi decise di mettere su un negozio di arredamenti up-to-date, pezzi di grande design, mai visti a Napoli, e corteggiò Lella e Salvatore per coinvolgerli nell'avventura, conferendo il capitale della loro straordinaria esperienza alla pari con quello dell'ingegnere che si assunse quello del valsente.
Fu posta in atto un'operazione a scacchiera, tutta di grande lungimiranza commerciale: assicuratasi la disponibilità di un grande appartamento al primo piano che sovrastava il negozio Refrain, quest'ultimo si trasferì in Largo Vasto a Chiaja con la nuova ragione sociale Refrain Self33 che rispondeva all'evoluzione del disco dal 45 al 33 giri, belle buste graficamente attraenti, prezzi non elevatissimi, grande assortimento e SelfService, (poco personale, solo per la sorveglianza dei distratti che dimenticavano di pagare); il vecchio Refrain venne posto in comunicazione col piano superiore.
Le discussioni su come chiamare la nuova azienda furono lunghe e animate: prevalse il nome ellisse. A me piacque subito per l'abitudine visionaria della sintesi grafica, mentre ne parlo già proietto in recondite pieghe del cervello l'immagine di quel che il logo sarà. Dovetti affrontare una piccola serie di opposizioni del Biondi che avrebbe voluto un simbolo banalmente costruito secondo le regole della geometria euclidea: mi parlava del doppio fuoco, delle ellissi celesti, di Keplero e così via, rigidamente.
Quando presentai la mia ellisse mal costruita. mi irrigidii a difenderla ad oltranza. L'ellisse del mio marchio la volevo deformata, dolce come un tema musicale in minore, come un glissando prodotto dalla coulisse di un trombone e perfettamente fusa con la scritta in basso a sinistra. Scrissi "ellisse" con l'iniziale minuscola che la faceva integrare meglio in scivolata verso destra e la fondeva col segno geometrico. Ed era in un nerissimo Magister, uno dei caratteri meglio riusciti di quelli disegnati in quegli anni da Aldo Novarese un carattere che alludeva al Times New Roman che iniziava allora ad andar di moda.
Ellisse separatosi dal Biondi, si accreditò rapidamente come attività commerciale e come Centro di promozione culturale. Per il primo di questi due aspetti misi in piedi, nel 1972, una campagna dal titolo Non tenteremmo mai di mettervi nel sacco, noi siamo cresciuti con voi, grandi poster e depliant di vario formato e uscite sui quotidiani. Era costruita su una specie di contraddizione tra segno e copy, una strizzata d'occhio ancora oggi percepibile. Il testo alludeva alla strana foto, costruita in studio, uno still life che proponeva una maschera si ceramica che faceva da volto a un personaggio che indossava una bombetta, un cappello duro, quello di Totò o quello dell'HobJob del film 007 Goldfinger, il killer col bowler hat dalla tesa affilata come un rasoio. Il volto ambiguo alludeva alla capacità commerciale astuta e levantina, dal suk della Pignasecca del titolare; non tenteremmo mai di mettervi nel sacco: vero o falso?
Ma il messaggio vincente che raggiunse il target, recitava su uno dei pieghevoli e quello che fu più diffuso: “
« Noi siamo cresciuti con voi. Quando iniziammo la nostra attività ci accontentammo di scegliere certe linee sostenute dalla firma del grande designer o dalla, marca di prestigio. Pensammo che ciò fosse sufficiente a garantirci verso di voi. Poi imparammo a conoscervi, foste i nostri amici come noi fummo i vostri. Così siamo cresciuti, non solo in dimensioni. L'esperienza di questi anni ci ha insegnato a servirvi meglio.
Per poter scegliere con convinzione voi volevate saperne di più. Noi anche. Così scegliamo per voi " prima ", non per presunzione, ma proprio perché abbiamo imparato a conoscervi.
E il " dopo " è solo sistemare in spazi costruiti consapevolmente da voi e intorno a voi per un modo di abitare nuovo e vostro per gli anni importanti che vi aspettano uno dopo l'altro.
E vi facciamo spendere solo per quello che effettivamente vi serve. Offrendovi — perché no — con la forma bella anche la firma famosa. Non tenteremo mai di mettervi nel sacco perché siamo cresciuti con voi”
Il secondo aspetto venne supportato da una serie di pubblicazioni che nacquero dal 1972 a partire dai cataloghi di un paio di mostre ed ebbero una ben più ambiziosa evoluzione, divennero una collana editoriale, Quaderni Ellisse; l’ultimo, col numero 4, venne pubblicato nel 1976, quando la crescita di Ellisse era ormai cospicua, al club di via Carducci 32 si era aggiunto il grande negozio di Piazza Vittoria 7-b.
Il progetto grafico costruiva il formato su un doppio quadrato sovrapposto, si sviluppava cioè in modo del tutto anomalo, in altezza, per amor di precisione 150 x 300 mm.
Mi sembra di ricordare, mi venne
suggerita da certe opere di Antonio Dentale tutte quadrate: volendone mettere
una in copertina, grande il più possibile, e rispettarne l’integrità, mi
venne in mente di raddoppiare lo spazio in altezza ed utilizzare il quadrato
superiore per la testata, i titoli e quant’altro occorreva; era nata la
collana Quaderni ellisse.
Fu appunto nel 1976, nel quaderno 4, Andiamo per certe semideserte strade, La sperimentazione teatrale a Napoli fotografata da Fabio Donato, con uno scritto di Giulio Baffi che buttammo giù a quattro mani, Totore ed io, un bilancio dei primi otto anni di vita nel quale dicevamo tra l’altro: “Se, teoricamente, in otto anni si può fare anche più che in ottanta, in pratica tutto dipende da come una azienda si proietta verso l'esterno, cerca, estende e rinsalda i propri collegamenti, in modo realmente autentico. Nel caso dell'Ellisse appare evidente che molte carte sono state giocate nella applicazione di criteri che rompono in modo netto con una prassi consolidata. Per esempio, « l'esterno », il pubblico, non sono stati concepiti come mercato puro e semplice e, quindi, l'azienda non si è proposta come macchina organizzata per il profitto puro e semplice. Tutto ciò ha significato ricercare costantemente un rapporto diverso col pubblico, con la ricca, cioè e complessa realtà sociale fatta di esigenze, di modi di vita, di aspirazioni reali. Di qui la rottura anche con la prassi ormai logora per cui la cultura diventa strumento al servizio del profitto e delle scelte industriali. L'Ellisse, al contrario, è cresciuta come centro di promozione e di aggregazione culturale autonoma e originale su alcuni filoni e ipotesi di ricerca per cui la nascita di idee, la scelta del mobile e dell'oggetto di arredamento non avviene su un terreno inesplorato per il pubblico, ma con la sua partecipazione, per dire così, e attraverso una rilettura delle ragioni culturali. Un criterio del genere fu chiaro nel modo di essere dell'Ellisse, già vari anni addietro, quando apparve uno dei primi riusciti manifesti che ricordavano al pubblico « Noi siamo cresciuti con voi ». Su questa base sono venute le ricerche grafiche, i manifesti di Alfredo Profeta, Almerico De Angelis, Geppino Cilento, Cilento-Sanguineti, Antonio Dentale. Su questa base sono maturate le ricerche editoriali e la nascita dei quaderni dell'artigianato Ceramico di Vietri, quelli su: i Segni della città, I Poeti, La Donna, I Disegni dal carcere di Lambesè, Le Tessiture cilene, L'artigianato del legno.”
Devo spendere ancora un po’ di parole per Segni della città, Appunti iconografici per un'analisi del linguaggio grafico di Napoli, il Quaderno (porta il numero tre) che firmai con Fabio Donato. Nacque dall’idea che la città si esprimeva in un linguaggio grafico spontaneo quanto rigoroso, frutto della stratificazione dei segni, i prezzi colorati che un artigiano ambulante con i pennelli da Giotto di quartiere in un paniere di giunco, dipingeva su richiesta del bottegaio e che venivano infissi sulla merce con un’assicella di legno in un cesto di carciofi o di borraggine, l’ormai scomparsa vurraccia selvatica, o anche dal pescivendolo, nelle carni rosse di un enorme tonno o di argentee alici. O anche espresse dalla mostra di un negozio che non aveva rinunciato ad un arredo Liberty o che difendeva l’insegna creata da “Rossi pitta tutto” di via Latilla. E fu anche la prima documentazione fotografica del graffitismo urbano.
Inoltre, in omaggio alla sensibilità che il Pica mostrava per i grafici che operavano in Campania, costruii un a scheda illustrata per ognuno, me compreso, introdotti da una sezione più ampia che recuperava l’opera, dal 1910 all metà degli anni’30, di un grafico, giornalista, scrittore e illustratore, Edoardo Macchia, una scoperta.
Mi divertii molto a mettere insieme l’operetta: grazie Salvatore, trentacinque anni dopo, per avermene data l’opportunità.
Alfredo Profeta